La leggenda del drago in Valnerina

Una versione della leggenda dei Santi Felice e Mauro e della miracolosa uccisione del drago che dimorava sulle sponde del fiume Nera

La leggenda del drago in Valnerina

L’estremo ciglio occidentale della Valnerina, che raccoglie i territori di Santa Anatolia, Scheggino e Ferentillo, fino al VI secolo dopo Cristo era scarsamente abitato. Quelle terre, infatti, si presentavano paludose e rendevano difficile la vita degli insediamenti umani.
Le esigue popolazioni che vi dimoravano erano, a quel tempo ancora pagane e vivevano nei boschi circostanti, dove trovavano condizioni favorevoli per la loro esistenza e per i riti legati ai propri culti.
Si racconta che, ai tempi dell’Imperatore Giustiniano, dimoravano nella zona due monaci: Mauro e suo figlio Felice, giunti in Valnerina dal lontano suolo di Siria. Dei due monaci si diceva fossero santi e possedessero poteri ultraterreni: nulla per loro era impossibile ed erano in grado di sbrogliare qualsiasi traversia.
La gente dei luoghi aveva preso a venerarli e ricorreva ai religiosi per ogni necessità. Chi era afflitto da una malattia, chi subiva tribolazioni, chi voleva essere istruito in qualche arte si recava da Mauro e Felice e da questi, con la loro vasta esperienza, otteneva conforto e soccorso.
Fu così che gli abitanti della zona implorarono il loro intervento affinché fossero liberati dalla minaccia di un malvagio drago.
Il drago, enorme e feroce, terrorizzava i popoli. Con la possenti colonne di fuoco che lanciava dalla bocca distruggeva gli alberi dei boschi, rendendo ancora più disagevole l’esistenza delle persone che riuscivano a sopravvivere proprio grazie al legname prodotto dalle dense selve.
Ma ciò, all’orrendo drago, non bastava perché con il suo fiato uccideva e poi divorava chiunque osasse sfidarlo e chiunque avesse avuto la sventura di imbattersi in esso.

Molti furono quelli avvelenati dall’alito e stritolati dalle poderose mascelle della bestia e gli impavidi, che vollero affrontarlo, subirono una tremenda sorte.
Mauro e suo figlio Felice, per togliere dall’angoscia le genti del posto, accettarono l’incarico di combattere contro il drago. Uscirono dall’eremo nel quale si ritiravano in preghiera e, armati di un bastone e di uno strumento ferrigno a forma di croce, si avviarono verso il nascondiglio della sanguinaria fiera, collocato in prossimità della palude.
Un gran numero di persone si mise sui loro passi: ognuno voleva assistere al combattimento e dare un valido contributo a quei monaci coraggiosi.
Arrivati al covo del drago, Mauro impugnò in una mano il robusto bastone e nell’altra la croce, emblema dei Cristiani. Prima dello scontro si raccolse con suo figlio in preghiera per ottenere l’aiuto di Dio, quindi fu pronto alla battaglia.
Levò in aria il bastone e lo fece ricadere con forza sopra il masso che ricopriva il nascondiglio dell’animale. A ragion del colpo vibrato, il masso si frantumò e dal covo balzò fuori il drago.
La bestia cominciò a gettare dalla bocca lingue impressionanti di fuoco, che giungevano a considerevole distanza bruciando la gente posta al seguito dei religiosi, mentre altri erano abbattuti dal venefico fetore del fiato.
Mauro prese ad avanzare temerariamente in direzione del drago, brandendo nella mano il simbolo dei Cristiani. Alla vista della croce, l’animale iniziò a emettere strazianti grida di dolore, come se una moltitudine di lance si conficcassero nel suo corpo. Fu a quel punto che Felice estrasse un’ascia e mozzò la testa dell’empio avversario.
Il drago stramazzò senza vita.
Con un cupo tonfo il corpo si abbatté pesantemente al suolo e tale fu l’impatto che la terra vibrò lungamente come se fosse scossa da un forte terremoto.
Ora l’animale giaceva riverso ed esanime nella palude e flutti d’acqua rosseggiavano del suo sangue, che abbondantemente si spargeva.

Alla notizia della sconfitta della belva accorsero molte persone per esaminare l’avvenuta morte e festeggiare la fine dei loro tormenti. Finalmente i popoli che abitavano quella terra, erano sciolti dall’oppressione del malefico drago e avrebbero potuto condurre un’esistenza meno grama.
Grandi onori furono tributati a Mauro e Felice. Quest’ultimo prese un ramoscello e lo piantò sulla riva del fiume Nera, scavò anche un solco, da cui cominciò a defluire la melma della palude.
Immediatamente il ramoscello germogliò, infondendo nei presenti la speranza di poter bonificare quelle terre acquitrinose e di dimorarvi sotto la protezione di Dio.
Il drago ucciso, l’emissario che prosciugò la palude e il virgulto conficcato nella sponda del Nera, divennero simbolo della rinascita di quella gente.

Risanato il territorio della Valle di Narco, Mauro edificò sulla riva destra del fiume un monastero, nel quale raccolse numerosi monaci e, intorno all’abbazia, sorsero le prime abitazioni.
Il giovane Felice, purtroppo, morì dopo qualche tempo, e sulla sua tomba, a venerazione della santità dimostrata, fu eretta una chiesa che divenne meta per devoti pellegrinaggi.
Felice fu il primo santo cristiano adorato in questo luogo e il suo culto si sostituì a quello dei numi pagani.

Nel monastero costruito da Mauro si ritirarono a vita di preghiera molti frati, che continuarono l’opera d’evangelizzazione e di recupero intrapresa dal fondatore, e grazie al loro costante lavoro nacque Castel San Felice che ancora oggi ricorda la miracolosa uccisione del drago.