Felice e Mauro, i santi guerrieri che sconfissero il drago della valle
La storia di due monaci eremiti, tra mito e leggenda, s’intreccia con quella del pestiferus draco che infestava la valle.
Felice e Mauro erano due monaci eremiti che, partiti insieme ad altri 298 compagni da Cesarea e Laodicea di Siria, giunsero nel V secolo a Roma per chiedere udienza al Papa, ricevere la conferma del loro credo e l’approvazione della loro condotta di vita. Quest’ultimo li indirizzò verso quelle zone interne dell’Umbria che non erano state ancora raggiunte dalla cristianizzazione e dall’evangelizzazione, la cui diffusione era avvenuta principalmente lungo le vie consolari, nelle quali sopravvivevano ancora le antiche religioni pagane.
Questi uomini si dispersero un po’ ovunque in tutta la Sabina e l’Umbria, concentrandosi soprattutto presso Monteluco di Spoleto, un monte sacro fin dall’antichità, e in Valnerina, ambiente ideale per la loro condotta di vita grazie al suo naturale isolamento.
Gli eremiti per condurre una vita ascetica e di preghiera necessitano di due cose essenziali: un riparo naturale, generalmente una grotta, e una sorgente di acqua pura, due elementi di cui il territorio della Valnerina è ricco.
Mauro, il figlio Felice e la nutrice di quest’ultimo, trovarono riparo nella grotta sottostante l’attuale abbazia di Castel San Felice, edificata da S. Mauro stesso dopo la morte del figlio con l’aiuto delle elemosine. Mauro diede vita così a un complesso abbaziale che raccoglieva numerosi monaci, da cui fu fatto abate, i quali iniziarono a seguire la regola benedettina.
L’aspetto più affascinante della storia che vi stiamo raccontando è senza dubbio la leggenda del drago. Si narra che i due santi sconfissero il drago che infestava il luogo “il drago infernale che cerca sempre la nostra rovina”, descritto da un nostro caro compaesano come “’na specie de papera: un grossu paperone co’ la coda rintorta”.
L’interpretazione del mito dell’uccisione del drago è probabilmente legata all’opera di bonifica compiuta dai monaci siriani lungo tutta la valle del fiume Nera che, con le sue esondazioni, trasformava i campi in paludi, che diventavano veicolo di malattie come la peste, la malaria o lo scorbuto.
Nella leggenda è possibile rintracciare un accenno a queste malattie e ai loro rimedi. Lo stesso Mauro, prima di compiere la miracolosa uccisione del drago, chiede alla balia di preparargli un pasto a base di cavoli cotti, pianta ricca di vitamina C, che possiede quindi effetti antiscorbutici.
Il racconto di come Felice e Mauro siano riusciti a uccidere il drago costituisce la parte centrale della vicenda, così importante da essere riportata anche nel bassorilievo della chiesa. Il drago, che si trovava nella grotta in cui viveva, venne attirato da Felice con dei pezzettini di pane. Mauro lo attendeva con l’ascia in mano e, appena questo mise fuori la testa per mangiare, la testa del drago rotolò nel Fiume Nera.
Sempre nel portale della chiesa è rappresentato un altro miracolo compiuto da Felice, che riporta in vita il figlio di una vedova, oltre a figure appartenenti alla religione cattolica i simboli zoomorfi dei quattro evangelisti o, ancora, l’Agnus Dei. Proprio quest’ultimo è legato a un’altra credenza: secondo gli abitanti di Castel San Felice e Sant’Anatolia di Narco l’Agnello ha lo sguardo rivolto verso un luogo dove è nascosto un misterioso tesoro.
L’abbazia dei San Felice e Mauro ha in serbo ancora un’altra sorpresa. Al suo interno vi è una fonte sorgiva a cui, un tempo, venivano attribuite proprietà miracolose. Oggi sappiamo che il “miracolo” è quello di essere di una sorgente solfurea e, per tanto, le sue acque venivano utilizzate per curare le malattie.
Attualmente la sorgente è visibile in una vasca all’esterno della chiesa, sebbene in origine essa sgorgava all’interno della chiesa paleocristiana, divenuta poi cripta della stessa abbazia. Solo successivamente venne canalizzata nella vasca esterna, probabilmente per evitare che le abluzioni avvenissero durante le celebrazioni religiose.
Delle proprietà di questa fonte ce ne parla Teseo Pini nel suo “Speculum Cerretanorum”, volume manoscritto del 1485. L’autore riporta che a S. Felice il priore Andrea usava lavare infermi e bambini di fronte all’altare della chiesa utilizzando proprio l’acqua del fiume Nera. I bambini così benedetti sarebbero cresciuti di ampia corporatura e di alta statura se fossero stati lasciati, in cambio della grazia ricevuta, doni e ricche vesti con vantaggio economico non indifferente per l’arguto sacerdote.
Non sappiamo bene quando i monaci abbiano deciso di spostare la fonte all’esterno, ma sappiamo che all’inizio del XVIII secolo essa risultava chiusa. Il Vescovo Lascaris nella visita pastorale del 1712 ce ne parla così:
“davanti all’altare maggiore v’è il presbiterio elevato e spazioso. Nel mezzo v’è una buca (oggi non più visibile) chiusa con grata di ferro, su cui le donne, spinte da fanatismo, lavano la testa dei figli con l’acqua di una vicina sorgente per liberarli dalla scabbia”.
A questo punto non vi rimane altro che andare a visitare il piccolo borgo di Castel San Felice e la sua incantevole abbazia per vedere i luoghi di una leggenda. Ma fate attenzione: potreste sempre incontrare un drago!
BIBLIOGRAFIA
JACOBILLI, Vita dei Santi e Beati del’Umbria
FABBI, Storia dei Comuni della Valnerina
AUTORI VARI, San Felice di Narco, ieri e oggi